euro_forteIn questi ultimi mesi l’euro si è rafforzato sui mercati valutari, tornando a essere una valuta rifugio su cui investire, toccando il suo massimo a quota 1,37 contro dollaro.

Qualche giorno fa il governatore della Bce Mario Draghi, il custode della moneta comune, ha riconosciuto che un euro forte è sinonimo di ritrovata fiducia e riduce i rischi di inflazione.

Draghi ha però riconosciuto che il rafforzamento pesa sulla ripresa frenando l’export: «Vigileremo sui cambi». Le parole del presidente Bce hanno subito indebolito la moneta unica, scesa sotto 1,34 sul dollaro.

Nelle frasi del governatore sembrano riecheggiare le preoccupazioni di tanti economisti europei che indicano nell’alto valore del cambio un freno alle esportazioni delle imprese europee. Ma quello che preoccupa è soprattutto il pericolo di una guerra valutaria che potrebbe scoppiare a breve.

Già le principali aree del mondo hanno mosso le prime mosse.  A dare fuoco alle polveri è stato il premier giapponese Shinzo Abe, che sta spingendo la Banca del Giappone a stampare sempre più yen. Negli ultimi due mesi lo yen si è già svalutato del 10% sul dollaro e del 14% sull’euro, rendendo più competitive le esportazioni nipponiche e aprendo di fatto il conflitto commerciale.

Del resto in questi ultimi anni Stati Uniti e Regno Unito hanno fatto qualcosa di non molto diverso, con la Federal Reserve e la Bank of England che stampavano moneta per acquistare titoli. Per non parlare della Cina con il suo Yuan, e poi la Corea del Sud e il Brasile, Tailandia e Singapore, India, Taiwan, Svizzera: tutti impegnati ad abbassare il valore delle loro monete per non rimanere al palo nella corsa all’export.

Anche i tedeschi, da sempre difensori di una moneta forte e della lotta all’inflazione, sono turbati dal calo delle esportazioni dovuto all’euro forte.  Molti però non nutrono grandi speranze che queste preoccupazioni si traducano in un chiaro cambiamento di azione della Bce.

L’interesse dell’Italia è chiaro: un euro debole darebbe fiato alle nostre imprese, ma rinvierebbe forse quelle riforme necessarie per il rilancio della crescita e rimanderebbe i tagli alle spese pubbliche.