Liberalismo e Liberismo

Nell’accezione classica delle dottrine politiche, liberismo è una declinazione della parola Libertà, da cui deriva anche la più famosa parola Liberalismo. Perché allora le due locuzioni, entrambi derivanti da Libertà, differiscono? Cambia il contesto in cui le attività si esercitano. È liberale una politica che garantisce libertà dei diritti civili e dell’individuo. È liberista una politica che consente, parimenti, la libera iniziativa economica, senza i vincoli dell’intervento di uno Stato che regoli l’economia. Pur rappresentando due ambiti completamente differenti, questa differenziazione linguistica, va rimarcato, è tipicamente italiana: la distinzione terminologica nacque in seno a una discussione tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi.

Tuttavia, se la diversità linguistica è italiana, i padri dei rispettivi pensieri, già declinati, sono Adam Smith e John Locke. Smith infatti intendeva il liberismo come un mero prolungamento delle libertà del liberalismo apportate all’ambito economico, e dunque il libero commercio, il libero mercato e la facoltà di fare impresa.

Liberismo in Italia, alla ricerca di un equilibrio

Ora, è opportuno considerare che l’Europa, e in particolar modo quella mediterranea di matrice cattolica, anche nell’adottare il libero mercato si differenzia dalla deregolamentazione selvaggia che invece appartiene alla cultura statunitense, che ha vissuto l’apice del liberismo durante “i ruggenti anni ‘20”. Anche gli USA tuttavia hanno conosciuto momenti di interventismo in ambito economico, ad esempio con il New Deal di Roosevelt.

In Italia, oltre che antiliberale per ovvi motivi, fu anche palesemente antiliberista il fascismo, per due motivi ben radicati: in primo luogo per una politica economia protezionista, e in secondo luogo per la statalizzazione di alcune imprese e banche.

Il boom economico del dopoguerra si deve invece a fattori di compenetrazione tra libero mercato e statalizzazione: se è vero che vennero mantenuti enti statali del ventennio, e altri ne furono creati, è però anche un dato di fatto che fu la spontaneità e la libertà dell’iniziativa economica a garantire uno sviluppo vertiginoso. D’altro canto non va dimenticato, in quest’ottica, che l’Italia beneficiò del piano Marshall, inserendosi in una dimensione Atlantica di forte impronta anticomunista durante la guerra fredda.

Non mancarono, comunque, anche gli eccessi in questo campo: negli anni Cinquanta Confindustria tentò un’elisione quasi radicale dei sindacati nelle fabbriche, fondando de facto la sua logica di sviluppo su salari che risultarono tra i più bassi in Europa.  

Creare lavoro per sé e per gli altri. Partita Iva, un eroe moderno

Come Ulisse s’ingegna per vincere la guerra contro Troia, cavando dal nulla la geniale invenzione del Cavallo di legno, così il giovane italiano che in tempo di crisi non trova occupazione come dipendente e apre una Partita Iva è costretto, per mangiare, a usare la sua propria intelligenza per rimanere a galla: ma sulla sua strada incontra l’ostacolo insormontabile del fisco italiano, che lo denigra e lo insulta ancor prima che egli abbia un minimo guadagno sull’attività che intraprende. È un eroe moderno? Per certi versi, soprattutto nella fase iniziale della sua attività, il suo è un martirio. Di fatto, non solo tenta di vincere l’ostacolo della disoccupazione per sé stesso, ma con la sua attività si adopera, cercando di assumere altri disoccupati. Questo carattere virtuoso dell’imprenditoria e della libera iniziativa, che potrebbe far decollare il sistema occupazionale, è però osteggiato da un sistema elefantiaco. Il sistema fiscale italiano, che impone un costo del lavoro voraginoso, più che premiarlo lo tartassa: non lo incentiva a farsi da sé, costringendolo anzi a lavorare per mantenere un sistema che risente ancora di uno statalismo parassitario e destinato, viste la sua gestione, a tramontare e a collassare.